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venerdì 13 aprile 2012

Un momento difficile

"Tanto tuonò che piovve" potremmo dire, ripescando dalla nostra memoria una frase sentita spesso nelle discussioni dei nostri vecchi.

Allo stesso modo, la crisi economico/finanziaria, che ci attanaglia da anni, ci ha condotto, ormai in maniera evidente, all'interno di un periodo di recessione che ci auguriamo sia il più breve possibile. E' recente la notizia di un calo della produzione industriale italiana di ca. il 6% e le previsioni di riduzione del PIL, nell'anno in corso, prefigurano dei valori fra l'uno e il due per cento.

Se aggiungiamo a tutto questo l'aumento, in valore assoluto, del debito pubblico ad oltre 1.960 miliardi di euro ed il ritorno del differenziale del tasso fra i nostri titoli BTP ed i Bund tedeschi ad oltre i 350 punti, non c'è da stare molto allegri.

Le tensioni presenti nei mercati borsistici mondiali e sui paesi più deboli dell'area euro mostrano inoltre l'incertezza degli operatori internazionali e della connessa speculazione sul futuro economico.

La ripresa americana presenta segnali di debolezza. La crescita del prodotto cinese sembra rallentare e soprattutto l'area europea sembra entrata quasi completamente in recessione.

In questi giorni, il nostro Parlamento sta discutendo l'approvazione dell'inserimento nella Costituzione del vincolo del pareggio di bilancio, come primo passo nella direzione della piena realizzazione del "fiscal compact", voluto fortemente dai paesi forti dell'euro con in testa la Germania.

Questo provvedimento dovrebbe consentire il definitivo controllo europeo sulla possibile dilatazione del debito pubblico dei paesi meno virtuosi, fotografando una situazione comune da cui ripartire.

Ma saremo in grado di farlo?

La domanda che nasce inevitabile è quella di capire se, dopo aver cristallizzato la situazione del debito, vi sia la volontà politica di metterlo in comune per ripartire da zero, come un'unica entità politico economica capace di assumere un ruolo internazionale competitivo all'esterno e di attuare all'interno una politica di risanamento, di sviluppo e di redistribuzione della ricchezza fra i diversi Stati membri.

E' su questo progetto che il mercato finanziario esprime i suoi dubbi, attaccando, insieme alla speculazione, gli anelli più deboli della catena. La creazione di un Fondo salva stati, con una dotazione che può arrivare complessivamente al massimo a ca. 700/800 miliardi di euro, non sembra la soluzione al problema, nell'attesa di un deciso passo avanti verso l'unione politica, fiscale ed economica.

Sarebbe stato più utile accettare un ruolo della BCE come prestatore di ultima istanza, rassicurando così i mercati sulla sicurezza del rimborso dei titoli del debito pubblico di qualsiasi Stato membro dell'Unione, anche se con il rischio dell'accentuazione dell'inflazione e della perdita di valore dell'euro.

E' questa la principale preoccupazione tedesca: quella di veder svalutato l'euro (quindi il valore del proprio surplus e del livello di vita del proprio popolo), a causa di una possibile inflazione connessa ad un'eccessiva circolazione monetaria.

D'altra parte, il rischio di una svalutazione dell'euro sarebbe compensato da una maggiore competitività ed appetibilità dei prodotti europei; inoltre, non è detto che la possibile inflazione si presenti in maniera così pesante come temuto, perché la necessità d'immettere moneta sul mercato potrebbe essere inferiore al previsto in quanto gli investitori potrebbero sentirsi subito rassicurati dal nuovo ruolo svolto dalla BCE ed assestarsi su di un rendimento medio dei titoli in euro leggermente superiore al tasso d'inflazione oggi registrato nell'area.

In quest'ipotesi, potrebbe verificarsi una riduzione dello spread fra i titoli dei diversi stati membri, che potrebbe tuttavia penalizzare il rendimento di quelli più virtuosi.

La successiva emissione di un debito europeo, per il finanziamento della crescita, sarebbe il secondo passo auspicabile e decisivo per rilanciare le nostre economie e dare il tempo per la successiva integrazione politica ed economica.

Come sempre, le decisioni finali non sono pertanto un problema di tecnica economica ma di natura politica e sono banalmente legate alla capacità di concertazione fra il tornaconto personale dei singoli paesi membri e delle loro popolazioni e la progettualità collettiva.

Se invece si continueranno a mantenere le distanze e le differenze all'interno dell'area europea senza mettersi opportunamente in discussione è facile prevedere un accanimento della speculazione e l'aumento della sfiducia degli investitori internazionali verso un'area debole, priva di sviluppo, con un debito finanziario eccessivo e, soprattutto, priva di una classe dirigente in grado di agire secondo un piano comune efficace.

All'interno di questo quadro di riferimento, il nostro Paese, privo della sovranità sulla propria moneta, indebitato oltre un livello sopportabile, rischia di soccombere a causa della stessa cura che cerca di guarirlo. Nessuno vuole mettere in discussione le necessarie manovre sulla riforma pensionistica, le riforme attuate in campo fiscale, né il timido compromesso sulle liberalizzazioni e sulla riforma del lavoro, ma è il momento di fare molto di più.

Non possiamo sperare ed aspettare l'aiuto europeo! Dobbiamo fare da soli!

Bisogna far ripartire la funzione di finanziamento delle Banche nei confronti delle attività commerciali, anche aprendo una vertenza nei confronti dei criteri di capitalizzazione previsti dall'EBA, European Banking Authority (che prevede l'appostazione, al valore di mercato, dei titoli di Stato presenti nell'attivo del bilancio delle Banche evidenziandone la possibile perdita in conto capitale) quanto mai inopportuni in un momento come quello attuale.

D'altra parte, anche la possibile garanzia dello Stato a sostegno dei finanziamenti, se non fosse valutata a rischio zero, non consentirebbe la concessione senza intaccare il patrimonio di vigilanza.

Dobbiamo avviare un completo piano energetico nazionale che ci consenta di ridurre la nostra dipendenza energetica e diminuire significativamente l'incidenza negativa dei relativi costi all'interno della bilancia commerciale.

Dobbiamo riesaminare complessivamente la capacità e la validità dei nostri settori produttivi cercando di favorire tutti i possibili investimenti verso quelli più competitivi, innovativi ed in cui è plausibile ottenere un premio di remunerazione in base alla qualità più che rispetto al costo.

Dobbiamo ridurre il carico fiscale sulle imprese e sul lavoro, utilizzando tutto quello che è recuperabile dalla lotta all'evasione fiscale, dallo "spending review" e da una possibile maggiore tassazione dei redditi elevati oltre 150.000 euro e sui grandi patrimoni (compresi quelli detenuti dalle fondazioni) come stimolo alla domanda interna.

Dobbiamo infine rendere la macchina dello Stato e l'amministrazione pubblica una "macchina da guerra" che, invece di assorbire quasi la metà del PIL in una logica, in alcuni casi, parassitaria, intervenga attivamente per la sua crescita.

Pensiamo ad un'amministrazione pubblica in cui si attui uno spostamento settoriale delle risorse umane in modo da consentire una maggiore prestazione di servizi che, da un lato rappresentino delle economie per la popolazione civile e per le imprese, e dall'altro possano costituire delle vere e proprie attività remunerative.

Infine, se il processo di unità europeo dovesse mostrare dei limiti tali da indurre a ripensarne l'intera progettualità, attestandosi su obiettivi più modesti, dovremmo essere pronti a considerare una possibile uscita dall'euro, ritrovando la sovranità sulla nostra moneta.

Tutto questo ha bisogno di un rinnovato clima di unità nazionale e di una classe dirigente politica e civile all'altezza di uno dei momenti più difficili che il Paese abbia attraversato.

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